Alla scoperta di un cliché alimentare tra bisogno fisiologico, ricerca del benessere e attrazione fatale.
Di Alberto Piastrellini
“Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie”
I versi che aprono e chiudono questa divertente poesia di Guido Gozzano (Torino, 19 dicembre 1883 – Torino, 9 agosto 1916) pur riferendosi ad un mondo scomparso di prurigini e pudori celati sotto velette e crinoline all’apice della Belle Epoque, illustra benissimo il rapporto quasi carnale che lega indissolubilmente l’universo femminile alla pasticceria, tanto quella consumata, quanto quella prodotta in casa.
L’immagine della mamma che prepara una torta; della nonnina che sforna i biscotti; così come delle amiche che si ritrovano per un tè con annessa dovizia di golosità proprio perché luogo comune è divenuta iconica ed abusata anche oggi quando le occasioni, per molte, di mettersi in cucina è diventato un lusso (in termini di disponibilità di tempo), oppure un’ostentazione modaiola con annessa gara alla cerca del robot più performante.
La stessa idea di festa e di abbondanza sottese alla produzione di un dolce fatto in casa, retaggio di un tempo in cui, per molti, la piramide alimentare si fermava alla base, è oggi abbondantemente superata dalla disponibilità illimitata di fonti di zuccheri semplici e complessi e dallo sperpero che, almeno in Occidente si fa di prodotti dolciari industriali e non.
Eppure, c’è una complessa serie di ragioni per le quali femminilità e dolci vanno a braccetto.
Cerchiamo di scoprirne qualcuna.
La soglia di percezione del dolce è la più alta rispetto a quella degli altri gusti (amaro, aspro, salato, umami) e sembra che la sensibilità verso gli zuccheri in generale sia piuttosto antica in termini evoluzionistici, non è un caso che i neonati preferiscono soluzioni che presentano una concentrazione più alta di lattosio, lo zucchero già presente nel latte materno.
Mangiare dolci, quindi, sembrerebbe “risvegliare” una “memoria del gusto” che ci portiamo dietro da migliaia di anni. Il gusto dolce, poi, generalmente è associato ad una sensazione piacevole, per cui si tiene a ripetere un’azione che ci appaga e ci gratifica. Almeno in partenza, quindi uomini e donne sembrerebbero reagire allo stesso modo di fronte alle sollecitazioni del gusto, ma a ben guardare non è proprio così.
Si, perché mentre generalmente gli uomini preferiscono il binomio grasso/salato, le donne prediligono quello grasso/dolce. Un’indagine specifica su questo argomento denominata Nutrinet compiuta su oltre 500.000 volontari i cui risultati sono stati pubblicati sul British Journal of Nutrition evidenzia che nei bambini queste differenze di gusto non ci sono e la diversificazione avviene con la pubertà; sarebbero gli ormoni, quindi che scatenano nei sessi la propensione alimentare e indirizzano il gusto.
Non solo, pare che la presenza di un certo gene provochi nel gentil sesso una predisposizione naturale agli alimenti dolci ed il funzionamento di queste e delle sue mutazioni, regolando la produzione della dopamina indirizza la preferenza alimentare verso i “cibi ricompensa” capaci di indurre sensazione di appagamento, benessere, consolazione, buon umore.
La pressione culturale, poi, ha il suo peso quando si scontra con la fisiologia e la psicologia.
A partire dagli anni ’20 e ’30 del ‘900 comincia a predominare una figura diversa della donna, cambiano i canoni estetici e dagli anni ’50 in poi anche l’alimentazione (in Occidente) subisce una svolta epocale. Il rispetto dei nuovi profili impone la necessità di diete capaci di contrastare le nuove disponibilità alimentari e, parallelamente i nuovi ritmi di lavoro aumentano vertiginosamente le cause di stress psicofisico.
I ricercatori hanno scoperto che proprio diete troppo restrittive e squilibrate inducono al consumo via via più massiccio di dolci e zuccheri capaci di indurre sensazione di appagamento e miglioramento dell’umore innescando un circolo vizioso che, portato all’eccesso, può anche condurre all’obesità.
E non è un caso, che proprio in questi anni caratterizzati da instabilità economica e sociale l’attenzione di media, produttori di format televisivi e social, si sta concentrando nell’esaltazione del cibo e della gastronomia (anche portati all’eccesso), quale evidente valvola di sfogo.
Infine, va detto che non solo consumare dolci è una forma di appagamento; anche farli, per se e per gli altri, costituisce una fonte di benessere ed una salutare riduzione dello stress.
Sperimentare ricette golose, condividerne il risultato e farne dono è un modo di esprimere la propria personalità stimolando la creatività. Non solo, l’atto di per se simbolico di preparare il cibo da condividere si carica in questo caso di significati legati al voler soddisfare l’altro ricevendone la ricompensa emotiva della gratitudine e dell’affetto.
Demonizzare i dolci, quindi, non serve poi a molto: ancora una volta il richiamo ad un sano equilibrio è la formula per godere, senza troppi sensi di colpa, di un piccolo piacere della vita.