Brusche e pungenti, le affermazioni del filosofo Umberto Galimberti durante l’evento sulla scuola organizzato da Confartigianato Vicenza dello scorso febbraio. Le sue parole hanno suscitato plausi e polemiche. Per certi aspetti, sono arrivate come un pugno preso in piena faccia, indignando coloro che le hanno trovate troppo generaliste e non corrispondenti alle tante sfaccettature del vivere la scuola nel quotidiano.
Per altri, quelle parole, in grado di generare l’intenso dibattito di questi giorni, meritavano di essere dette proprio in maniera così diretta. L’istituzione scolastica ha certo cercato di adattarsi al cambiamento dato dai nuovi contesti sociali ma è visibile, oggi più che mai, quanto non abbia saputo accogliere e cogliere tali ondate. Non si è generato, quindi, quell’auspicato rinnovamento culturale e quel benessere nel vivere la scuola e i suoi ambienti.
Patologia, scuola e didattica
Nel monologo sulla scuola, Galimberti ha portato alla luce alcune zone d’ombra ben note a coloro che frequentano le aule scolastiche. Seppure sarebbe necessario fare alcune distinzioni e precisazioni sulle patologie o condizioni citate dal filosofo, il nominato aumento esponenziale di diagnosi, di certificazioni e di conseguenti piani educativi personalizzati è sotto agli occhi dei più. Da un lato, si pensa che un tempo le diagnosi fossero inferiori come numero in quanto alcune condizioni erano poco note o del tutto sconosciute. Dall’altro lato è anche improbabile pensare che, statisticamente, possano esserci così tanti casi di bambini e di ragazzi che riportano un disturbo neuro cognitivo o del neuro-sviluppo.
Quest’ultima considerazione è proprio quella sostenuta dal filosofo quando afferma: “vuol dire che mettiamo al mondo solo dei ragazzi handicappati dal punto di vista psichiatrico?“. Se fosse così, si dovrebbe lanciare un urgente segnale di allarme e indagare sulle eventuali cause che, all’interno dei contesti educativi e familiari, non permettano il pieno sviluppo dei tanti bambini i quali, biologicamente sani, presentano difficoltà nelle varie situazioni legate allo stare a scuola e all’apprendimento.
È davvero possibile che oggi il numero dei ragazzi in difficoltà, che presenta deficit, disturbi o ritardi sia in proporzione così alta rispetto a coloro che, pur nella diversità, hanno sviluppato capacità neuro cognitive adeguate alla vita? Ripensando alle teorie dello psicologo Howard Gardner sulle intelligenze multiple, dovremmo aver colto gli apprendimenti dei bambini e dei ragazzi nel loro individuale modo di “funzionare”, superando quindi l’universalità precedentemente definita dal quoziente intellettivo. Entrando nelle classi, invece, troviamo in rilievo non tanto le intelligenze, quanto le difficoltà multiple.
Poco si riesce a cogliere della molteplicità delle intelligenze e si lascia la diversità ad essere un tasto dolente da affrontare nelle complesse dinamiche della scuola. Fermiamoci anche a considerare la presenza di studenti provenienti dai contesti sociali, culturali e geografici più disparati. Tutto questo avrebbe dovuto mettere in profonda discussione la tradizione scolastica, la quale è rimasta il più delle volte fedele a se stessa e autoreferenziale come una macchina che ingloba ciò che incontra senza mutare mai. La diversificazione dei percorsi di apprendimento è data per lo più dalla tipologia di prove e verifiche (diverse) da sostenere per poter ottenere una (stessa) valutazione.
La provocazione di Galimberti, “Perché patologizzare tutte le insufficienze?”, è dunque un monito anche per quei genitori i quali, talvolta scoraggiati nel vedere un figlio in forte difficoltà nello studio, iniziano a desiderare per lui un rifugio, ossia quello della diagnosi, in modo che possa ottenere voti sufficienti e, ovviamente, la promozione. Dinamica che diventa più evidente con l’avanzare dei gradi di istruzione. Capita anche che, di fronte alla notizia di un brutto voto, il genitore richiami l’insegnante di sostegno in quanto considera che attraverso l’ausilio degli strumenti compensativi e dispensativi (legge 170/2010) non debba esserci un fallimento. Quell’aiuto preteso libera dall’onere di compiere una parte di “fatica” per raggiungere l’effettivo apprendimento delle materie di studio.

Educare alla fatica
Un dato di fatto è che oggi un gran numero ragazzi non è più abituato alla fatica. Questa avrebbe invece un’importante valenza educativa ed evolutiva. Abbiamo commesso l’errore di volere spianare a tutti i costi la strada ai nostri figli. Eppure, la felicità non si raggiunge attraverso un percorso privo di buche e ostacoli. Abbiamo quindi a che fare con ragazzi svogliati e incapaci di trovare un senso profondo a ciò che vivono, poco determinati verso l’impegno e la costanza. L’obiettivo non è tanto quello di apprendere ma di ottenere un voto oltre la sufficienza e, certamente, la promozione. Siamo responsabili di aver provocato questa visione scorretta di ciò che realmente è necessario per sostenere la crescita intellettiva.
“Queste cose aumentano perché ci sono i genitori che pur di far fare un percorso più facile ai loro figli gli fanno fare una bella ricetta dal medico e così c’ha il percorso facilitato, cioè la strada dell’ignoranza, purché sia promosso, perché ai genitori interessa questo, non la formazione.“
U. G.
La fatica deve iniziare a essere presente già da quando si è piccoli. Si seguono le competenze del bambino, lo si educa a non dare tutto per scontato e a essere partecipe, il più presto possibile, alla vita. Troviamo, ad esempio, genitori che si caricano di ogni tipo di oggetto quando, a seconda della forza, potrebbero far portare un qualcosa ai bambini in modo che, crescendo, arrivino a essere responsabili e collaborativi.
Da quel gioco portato dal bambino, si arriva ad aiutare a portare le buste della spesa (anche una più leggera può essere un’azione significativa). Vediamo ancora bambini nel passeggino quando sono già in grado di compiere a piedi un tragitto. Questi sono solo alcuni esempi in cui si vede come è facile abituare un bambino alla pigrizia e a indurlo a pensare are che tanto ci sarà sempre qualcuno ad occuparsi di tutto.
Il lavoro degli insegnanti di sostegno
Nel discorso, Galimberti tocca, in maniera critica, la presenza degli insegnanti di sostegno che affiancano l’insegnante della materia nella didattica quando in classe è presente un allievo con diagnosi. Estistono certamente insegnanti di sostegno più o meno validi, così come accade per i docenti e gli educatori scolastici.
“Gli insegnanti di sostegno, ma stiamo scherzando? Gli insegnanti di sostegno, a parte che dovrebbero essere preparati e non semplicemente residuali di quelli che non hanno avuto la cattedra, i quali non sanno niente delle patologie dei ragazzi. Ma poi, gli insegnanti di sostegno dovrebbero essere dati alle persone che hanno dei veri problemi psicologici o psichiatrici, non al dislessico. Perché quando tu metti un insegnante di sostegno accanto a un bambino, sapete qual è il primo messaggio che gli date a questo bambino? Tu da solo non ce la farai mai.”
U. G.
Come sostiene il filosofo, il ruolo è svolto nella maggioranza dei casi da docenti che si trovano all’inizio della loro carriera e che sono in attesa di un concorso. Nonostante si debba essere a supporto della didattica, non sempre si conoscono le caratteristiche derivate dalla patologia diagnosticata o si ha una reale conoscenza delle diagnosi e degli effetti sull’apprendimento. È anche vero che questo succede anche per i docenti su materia e che, in linea di massima, un insegnante non è un medico e non è richiesta alcuna laurea o formazione in tale ambito.
Dal momento che l’insegnante di sostegno lavora tra i banchi e non dalla cattedra, succede anche che arriva a conoscere in maniera più approfondita molti degli studenti presenti in aula. Possiamo dunqe sostenere che la compresenza di due docenti durante le attività migliorerebbe la didattica, preverrebbe alcune dinamiche disfunzionali e sosterrebbe il bisogno dei ragazzi di essere visti come protagonisti del loro percorso.

Il conflitto tra insegnanti e studenti
A partire dalle scuole di primo grado, ma soprattutto da quelle di secondo, diventano evidenti le situazioni di conflitto tra studenti e docenti. Dinamiche che, entro certi limiti, possono definirsi fisiologiche, dal momento che la preadolescenza e l’adolescenza segnano una certa irrequietezza dell’animo. Ma succede anche che il conflitto superi i limiti dell’accettabilità e della convivenza civile negli ambienti scolastici. Ci sono situazioni in cui uno studente può sentirsi annientato, umiliato e sottomesso. In altre situazioni accade invece che un’eccessivo atteggiamento di ribellione o un ripetersi di comportamenti fuori luogo provochi l’impossibilità al dialogo costruttivo e allo svolgersi della didattica.
Senza l’instaurarsi di una relazione di stima e fiducia nell’altro, diventa difficile seminare l’apprendimento in un terreno fertile, si rende impossibile il dibattito vivace, interessato a comprendere e a formare un pensiero critico e divergente. Un ostacolo alla creazione di questo rapporto tra insegnanti e studenti è dato certamente dal numero di allievi presenti nelle classi. Da diverso tempo Galimberti sostiene l’importanza di avere classi formate da 12-15 persone al massimo. Un punto fondamentale che dovrebbe essere considerato alla base di un vero rinnovamento e miglioramento della scuola. Da qui, ci sarebbe ancora da parlare della cura degli ambienti, dell’educazione al rispetto, della prevenzione in famiglia e di molto altro. Ma questi sarebbero altri lunghi, complessi e articolati discorsi.
Chi é Umberto Galimberti?
Umberto Galimberti è nato a Monza il 2 maggio 1942 ed è un noto filosofo, psicoanalista oltre che docente universitario presso l'Università di Venezia.
La sua vita in gioventù è piuttosto esemplare per coloro che desiderano studiare, formarsi ma non hanno i mezzi economici per farlo. Proveniente da famiglia umile, con dieci figli da sfamare e un padre mancato ai cari troppo presto, il giovane Umberto riesce a continuare gli studi entrando in seminario e a intraprendere la facoltà di filosofia grazie alla vincita di una borsa di studio.
Dopo un paio d'anni è costretto a lasciare l'università per mancanza di soldi, così si trasferisce in Germania dove lavora presso una grande fabbrica come operaio. Qui si procura la cifra che gli occorre per terminare gli studi e si laurea con una tesi dedicata a quello che in seguito diventerà uno dei suoi maestri, il filosofo Karl Jasper (“La logica filosofica di Karl Jaspers”).