Donna Fresia

La Cordata: le donne di Gurdjieff

All’inizio degli anni trenta Georges Ivanovitch Gurdjieff creò a Parigi un gruppo speciale di cercatori spirituali: solo donne e quasi tutte lesbiche. Di Agnese Mengarelli Georges Ivanovitch Gurdjieff è stato un maestro spirituale che con i suoi insegnamenti ha fortemente influenzato il XX e il XXI secolo. Era un uomo che non passava inosservato, magnetico, controverso e a volte contraddittorio. Credeva che il mondo si sarebbe auto distrutto, a meno che la “saggezza” dell’Oriente e l’“energia” dell’Occidente non fossero state imbrigliate e usate in modo armonico. Fortemente influenzato dal cristianesimo esoterico, dal sufismo, dal buddismo e dall’induismo, Gurdjieff insegnava oralmente ai suoi allievi la Quarta Via, un modo per creare la propria anima attraverso lo strumento dell’attenzione, il ricordo di sé, la trasformazione della sofferenza e la non-identificazione. Dopo un terribile incidente automobilistico, si dedicò completamente alla scrittura abbandonando l’insegnamento diretto. Tuttavia, all’inizio degli anni trenta Gurdjieff decise di creare un nuovo gruppo speciale di cercatori spirituali: solo donne e tutte lesbiche tranne una. Nacque la “Cordata”, perché tutte dovevano aiutarsi come gli scalatori in montagna. Il gruppo era formato da giovani artiste e intellettuali, donne sensibili, creative, di grande talento e dall’intelligenza fuori dal comune. Tra loro, c’erano Jane Heap e la sua ex fidanzata Margaret Anderson, fondatrici della rivista Little Review, famosa per aver pubblicato l’Ulisse di Joyce e le opere di Ezra Pound, Eliot e Hemingway. Georgette Leblanc invece era una diva famosa, un’attrice che era stata amante e ispiratrice del drammaturgo Maeterlinck, nonché intima amica di Jean Cocteau. Poi c’erano Solita Solano, scrittrice ed editrice con la sua compagna Janet Flanner, corrispondente da Parigi per il New Yorker; Kathryn Hulme, autrice del libro Storia di una monaca e Dorothy Benjamin, vedova di Enrico Caruso. “Sapevamo fin dal dal primo giorno, credo, cosa lasciava presagire quel legame

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Segnature: la medicina popolare delle donne

Le guaritrici di campagna con le loro formule e gesti sacri hanno attraversato i secoli, ma sono ancora vive e operanti nella società di oggi. Le segnature erano un antico rito di cura praticato nelle campagne di tutta Italia che, pur nascendo nel contesto di una civiltà contadina ormai tramontata definitivamente, ancora oggi vede molte donne attive in questa antica arte. In passato ci si affidava a queste guaritrici di campagna per essere curati in seguito a cadute, Herpes zoster, bruciature o storte. Non solo, le segnature erano usate anche per ritrovare le cose perdute, calmare le tempeste o gli incendi, per eliminare la paura e soprattutto per scacciare il malocchio. Fino agli anni Cinquanta, in quasi tutte le famiglie contadine almeno una donna conosceva uno dei tanti rituali per togliere il malocchio, rimedio utilizzato per curare diversi disturbi, fra cui mal di testa, capogiri, difficoltà a dormire, nervosismo, esaurimento fisico e psicologico oppure malesseri di origine non ben precisata. Le segnature erano un’arte di guarigione affidata prevalentemente alla donna per la sua vicinanza ai segreti del corpo, proprio e altrui, che consente un punto di accesso privilegiato ai misteri del divino. L’atto della segnatura prevede la recitazione spesso in dialetto di alcune formule e preghiere specifiche (tenute gelosamente segrete) accompagnate da una gestualità simbolica che di solito prevede la ripetizione del segno della croce (da qui il nome di segnature), pur con importanti correlazioni con un passato di matrice pagana. All’interno della comunità contadina questo sapere veniva tramandato fra consanguinei, per esempio da nonna a nipote, madre e figlia, o da suocera a nuora. Le formule non si possono tramandare a chiunque perché il segnatore perderebbe i propri poteri per un anno, insieme a chi gliele ha insegnate e a chi le ha apprese da lui. Il “passaggio di

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Rennes le Chateau: il paese più misterioso d’Europa

  Siamo nella campagna dell’Aude, nel sud ovest della Francia, e dopo qualche chilometro di curve in salita, all’entrata del paese più misterioso di Europa ci accoglie uno strano cartello: Le buche sono vietate sul territorio comunale di Rennes le Chateau. Di Agnese Mengarelli   Neanche troppo insolito se pensiamo che da quasi un secolo in tanti vengono a scavare buche in questo piccolo villaggio di 80 anime; tutti alla ricerca del presunto tesoro ritrovato dal famoso parroco vissuto qui alla fine del 19° secolo.   È il 1885 e il giovane François Bérenger Saunière diventa curato della piccola e cadente parrocchia di Maria Maddalena di Rennes le Chateau. Dopo qualche anno cominciò il restauro della chiesa e la sua vita, povera ma dignitosa, cambiò radicalmente. Secondo le varie tesi Saunière, durante i restauri della Chiesa, avrebbe trovato il tesoro dei Templari. C’è, perfino, chi sostiene che avesse trovato il Sacro Graal o l’Arca dell’Alleanza o il tesoro del Tempio di Salomone. Altri sostengono che avesse trovato un luogo di culto segreto, considerato che vi sono molti simboli rosacruciani nelle decorazioni della chiesa. Si è detto pure che Saunière avrebbe scoperto un segreto così grave da far tremare le fondamenta del mondo cristiano e che avrebbe ricattato Roma.   In ogni caso, da anonimo e povero prete di campagna, Saunière divenne un uomo ricco e importante. Alcuni hanno calcolato che nel giro di pochi anni abbia speso 15 milioni di euro attuali. Fece costruire Villa Betania (la sua nuova dimora in stile rinascimentale ampia e lussuosa), il giardino, il Belvedere e la Torre Magdala per la biblioteca (un edificio solido merlato in stile neogotico dove Saunière custodiva i suoi libri). Ma il vero tesoro di Rennes le Chateau è la chiesa dedicata a Maria Maddalena, ricca di simboli e richiami

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Giardino Majorelle: il paradiso di Yves Saint Laurent

Siamo a Marrakech, la più importante delle città imperiali marocchine, dove per secoli si sono mescolati arabi, berberi, andalusi, ebrei, sahariani e africani e la cui piazza era il capolinea di carovane nomadi. Di Agnese Mengarelli Oggi in questa città si respira la stessa atmosfera di allora, fatta di caldo e sudore, profumo di spezie e souk chiassosi, cantastorie e incantatori di serpenti, motorini che sfrecciano e bambini che corrono. Il caos incredibile è la bellezza irresistibile di Marrakech e per godersi la città bisogna solo lasciarsi andare, abbandonare le resistenze tipicamente occidentali e seguire il flusso.   Fuori dalla Medina nel cuore della città nuova, invece, si trova un’oasi di pace dove si può riprendere fiato, coccolati dall’arte e cullati dalla natura: il Giardino Majorelle.   Jacques Majorelle era un pittore francese che amava viaggiare ed era affascinato dalla cultura islamica. Esperto di botanica, nel 1923 l’artista decide di acquistare un terreno a Marrakech e comincia a coltivarci la sua collezione personale di piante provenienti da ogni continente. Nel 1937 l’artista creò il blu Majorelle, un blu oltremare/cobalto, intenso e chiaro al tempo stesso, con cui dipinse le pareti della sua villa. Mantenere il suo giardino, però, era diventato costoso, così nel 1947 Majorelle decise di aprire i cancelli al pubblico e far pagare un biglietto di ingresso. Purtroppo, negli anni 50 una serie di disgrazie lo costrinsero a vendere parte della sua proprietà e a tornare in Francia.   Il giardino fu abbandonato, ma dopo qualche anno un altro grande artista rimase affascinato dalla sua bellezza: Yves Saint Laurent. È il 1966, il famoso stilista francese e il suo compagno Pierre Bergé visitano per la prima volta Marrakech, scoprono il giardino e ne rimangono incantati, tanto da definirlo “un’oasi in cui i colori di Matisse si mescolano a

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