La possibilità di fare esperienza attiva e libera con l’ambiente permette al bambino di sviluppare naturalmente un’ampia gamma di competenze psicomotorie e cognitive alle quali difficilmente potrebbe cimentarsi in un ambiente chiuso. All’aria aperta, il bambino ha l’occasione, ad esempio, di sentire la variazione della temperatura durante le stagioni, ha l’opportunità di sperimentare la cosiddetta psicomotricità naturale e il movimento libero e spontaneo e di vivere esperienze non “preconfezionate” dall’adulto.
Il gioco spontaneo del bambino
Liberi, all’aria aperta, i bambini s’immergono totalmente nelle possibili esperienze offerte dall’ambiente. In genere i bambini, ad esempio, quando incontrano una qualunque fontana iniziano con il bagnarsi un dito, un solo dito, poco poco. Per l’esattezza, iniziano con l’indice. Dopodiché procedono verso la mano, l’avambraccio, il gomito, la spalla… Finché non esiste più alcun angolo del corpo rimasto asciutto.
Tendenzialmente, se non si deve andare da nessuna parte e la temperatura esterna lo consente, possiamo lasciarli fare. Poter limitare i “no” a un bambino che gioca con gli elementi della natura ha un importante significato pedagogico. Capita anche di sentire i rimproveri di persone completamente estranee. C’è sempre qualche signora o signore che guarda allibita/o e dice: “Signora, le sembra il caso di farli bagnare così?! Li fa ammalare”. Ma bisognerebbe scrivere un intero articolo solo su questo tipo di interventi non richiesti.
Le convinzioni errate degli adulti sulla salute dei piccoli sono spesso il più grande ostacolo al loro gioco all’aria aperta. Eppure, l’allontanamento dalla natura, l’iperprotezione, l’eccessiva paura di ammalarsi non ha di certo giovato alla salute fisica e mentale dei bambini, tanto che lo scrittore Richard Louv ha individuato alcune caratteristiche che mostrano l’esistenza di un vero e proprio disturbo da deficit di natura.
Cos’è il disturbo da deficit di natura
Sindrome o disturbo da deficit di natura, chi ne ha sentito parlare? Togliere la vita all’aria aperta non è stata una grande mossa. Quanto tempo passiamo fuori durante le nostre giornate, spostamenti esclusi? Ed è sempre più difficile non correre a ripararsi in ambienti chiusi. Richard Louv nell’introdurre il concetto, precisa che non si tratta di una malattia, quanto piuttosto di una condizione di vita che, tra le paure dei genitori e la carenza di spazi aperti piacevoli (soprattutto nelle città), può portare a conseguenze dannose per la salute psicofisica di bambini e ragazzi (tra cui obesità, disattenzione, svogliatezza, noia, depressione e ansia).
In cosa consiste il disturbo da deficit di natura? Nature deficit disorder è la definizione coniata dal pedagogista e scrittore americano Richard Louv (2005) per descrivere le conseguenze della progressiva disconnessione tra uomo e natura. L’autore introduce il concetto nel libro L’ultimo bambino nei boschi, definendo le due principali cause del disturbo: le paure degli adulti e la mancanza di aree naturali.
Le teorie di Louv hanno aperto la strada a numerose ricerche che mirano ad approfondire il disturbo da deficit di natura e le ripercussioni sulla salute e sullo sviluppo dei bambini e, in generale, delle persone. Tutto questo non può che farci riflettere sulle possibilità che diamo o non diamo ai nostri figli. Certo è che, restare troppo tempo chiusi in casa e non avere contatto con l’ambiente naturale, rende sia adulti che bambini più nervosi e irascibili. Per questo diventa urgente il fatto di evitare di escludere o abbandonare la necessità di passare del tempo all’aperto.
Restituiamo ai bambini il gioco all’aria aperta
Oggi, la gran parte degli educatori, insegnanti e genitori hanno compreso quanto sia importante offrire al bambino la possibilità di vivere e giocare in modo significativo negli spazi esterni. Eppure, esistono ancora alcune esitazioni riguardo alla permanenza dei bambini all’aria aperta. Queste remore risultano più attenuate durante la bella stagione e s’intensificano nei periodi più freddi dell’anno quando, lo stare fuori, richiede una maggiore organizzazione e forza di volontà.
Le titubanze verso lo “stare fuori” sono evidenti soprattutto nei contesti urbani dove, nell’arco di una manciata di decenni, la vita umana si è adattata, o forse accomodata, a condursi in spazi chiusi, considerati più sicuri e confortevoli. Nelle città, inoltre, non è per nulla scontato avere a portata di mano luoghi naturali interessanti e capaci di conferire benessere.
Non tutti hanno infatti la possibilità di vivere vicino alle aree destinate al verde (parchi, riserve, fattorie…) ma è più frequente abitare in quartieri caratterizzati da ambienti artificiali, lontani dai paesaggi naturali o nei quali, quel poco di natura presente, è parte di zone trascurate che, oltre a non essere invitanti, risultano anche pericolose poiché spesso adibite all’abbandono di rifiuti.
Potremmo intravedere due aspetti del processo che, con fatica, sta portando a quella auspicata presa di coscienza da parte degli adulti sulla necessità di restituire l’esperienza all’aria aperta a bambini e ragazzi. Ci tengo a sottolineare che “restituire” non è un verbo utilizzato a caso, bensì scelto per rimarcare il fatto che le metodologie educative appartenenti alla definizione anglosassone di “Outodoor education” non sono parte di una corrente pedagogica recente o di una moda del momento.
Non si tratta dunque di una pratica educativa da aggiungere a quelle già esistenti, quanto piuttosto di recuperare un’abitudine umana, quella di trascorrere il tempo della vita e dell’infanzia all’aperto che, in epoca moderna, è stata ridotta in nome di una presunta maggior sicurezza e tutela garantita dall’indoor. Si vuole dunque “restituire” l’esterno e l’esperienza a contatto con la natura all’infanzia avendo compreso quei benefici che non sono soltanto dichiarati ma anche sperimentati, osservati e dimostrati dalle ricerche svolte nell’ambito dell’OE. Tornando agli aspetti qui in alto accennati, questi riguardano:
Le errate convinzioni degli adulti
Ancor prima dei bambini, sono stati gli adulti a disabituarsi a interagire con l’ambiente esterno, spesso vissuto solo negli spostamenti tra un edificio e un altro, diventando così, usando una definizione sociologica, alla stregua di un non luogo. Sul piano della salute si è radicata l’idea che a stare fuori nelle stagioni fredde ci si ammali di più, nonostante sia risaputo che le infezioni stagionali e altre malattie si diffondano soprattutto per l’”aria viziata” degli ambienti chiusi e sovrappopolati.
Sul versante della sicurezza, l’ambiente esterno è stato sempre meno percepito come luogo altamente educativo e visto invece come spazio difficilmente controllabile, poco gestibile e pieno di pericoli. Roberto Farné in “Outdoor education. L’educazione si-cura all’aperto” riporta alcune richieste fatte dai genitori nei confronti dei contesti all’aperto presenti nelle scuole frequentate dai loro figli.
Ad esempio, è stato chiesto di rivestire i tronchi degli alberi del giardino con materiale morbido e antiurto; di tagliare le radici degli alberi che fuoriescono dal terreno in modo che i bambini non vi inciampino sopra, di eliminare i rami bassi affinché nessuno vi si arrampichi; di stendere un prato artificiale al posto di quello naturale in quanto troppo frastagliato e disomogeneo; di eliminare qualsiasi dislivello che possa far cadere i bambini.
Ovviamente non vi è nulla di sbagliato sul fatto che un genitore e, in generale, un adulto, voglia proteggere il bambino e evitare che si faccia male. Il punto è che questa legittima preoccupazione è poi sfociata in un’ansia portata all’estremo, causando l’impoverimento di quelle esperienze educative fondamentali alle quali i bambini protendono in maniera innata. La cosiddetta psicomotricità naturale appartiene alla dimensione biologica del bambino, il quale la esercita da sempre, individualmente o attraverso la relazione, in maniera spontanea e appagante.
Scriveva, già alla fine del Settecento, il pedagogista tedesco August Herman Niemeyer, nella sua opera “Fondamenti dell’educazione e dell’istruzione per maestri, precettori e uomini di scuola” (1796):
«(i fanciulli) camminano, corrono, saltano, s’arrampicano, ascendono, lottano insieme, alzano e tirano sassi, portano all’intorno tutto ciò che loro si presenta, sguazzano volentieri nell’acqua, cavalcano se non sopra cavalli, sopra bastoni e su ciò che vi si presta meglio. Questa si può chiamare ginnastica naturale. Sarebbe una vera crudeltà voler proibire loro tutto questo.»
Ad ogni modo, dopo un lungo periodo di resistenza attiva verso l’ambiente esterno e di eccessiva iperprotettività manifestata dalle famiglie nei confronti dei loro bambini (si sporca, si fa male, prende freddo, va coperto di più, se corre suda troppo…) si è potuto constatare un cambiamento di atteggiamento e di maggior interesse verso il riconsiderato bisogno del bambino di fare esperienza all’aria aperta e i benefici derivanti.
Lo scoraggiamento nell’organizzare attività all’aperto
Se oggi, rispetto al recente passato, le famiglie si mostrano maggiormente propense a offrire esperienze in natura ai bambini, ad accogliere i programmi di OE presentati dalle scuole (quando esistono) e a riporre fiducia verso la riflessione educativa che accompagna tali percorsi, non possiamo ancora dirci completamente fuori dalle resistenze attuate dagli adulti.
Nei contesti educativi e scolastici a fare la differenza non è solo l’ambiente o la qualità della progettazione ma anche (e forse soprattutto) le persone che vi lavorano. Educatori e insegnanti, nel compiere la loro professione, si trovano spesso a dover affrontare a una serie di “mancanze” di natura organizzativa o strumentale. Non di rado queste sono così “gravi” da essere quasi insormontabili e, anche con tutta la buona volontà e la passione che ci si aspetta, diventano poco sostenibili nel lungo periodo.
Si tende spesso a puntare il dito contro l’educatore che avanza le proprie remore nell’accompagnare quotidianamente i bambini negli spazi all’aperti, ma uno sguardo pedagogico richiede l’esercizio costante dell’epochè husserliana, ossia di quella sospensione del giudizio (verso tutti) che aiuta ad accogliere, comprendere e trovare nuove soluzioni per affrontare ostacoli e problemi.
Se osserviamo le caratteristiche di alcune aree esterne dei nidi o delle scuole per l’infanzia presenti nelle città, troveremo spesso luoghi in cui è difficile pensare a un percorso di esperienze a contatto con la natura o che possano offrire adeguata accoglienza in ogni stagione. Questo per dire che l’attuazione dell’Outdoor education nei contesti urbani non è certo qualcosa di immediato. Non è sufficiente il solo fatto che se ne sia compresa l’importanza e non deve essere una responsabilità da riservare esclusivamente alla zelante azione del personale educativo. Richiede piuttosto un impegno di rete, una propensione alla riflessione continua in merito alle risorse e alle esperienze, una valutazione realistica degli ostacoli. In tutto questo devono essere inevitabilmente coinvolte anche le famiglie.
Concludo con questa visione suggestiva del pedagogista Danilo Casertano:
«Vorremmo adesso presentarvi la nostra collega più esperta, quella più anziana e con più esperienza, ma che quando meno te lo aspetti ti sa stupire diventando giocherellona, musicista, pittore, scultrice, idraulico, tessitrice… È un collega che ha risolto il problema di genere: sa essere sia maschio che femmina. Nell’Asilo nel Bosco lo abbiamo eletto come nostro mentore e musa, come nostra guida e fonte continua di ispirazione. Quando assume aspetti maschili lo chiamiamo Ambiente, e quando è femminile diventa Natura. Ha la forza del tuono e la delicatezza della brezza marina, la saldezza delle radici e la flessuosità dei rami, la luce e il calore del fuoco, è padre e madre. L’unico difetto è la vastità: in un’aula non c’entra e non ci entrerà mai.»
Per approfondire:
Farné R., Agostini F. (a cura di), Outdoor Education. L’educazione si-cura all’aperto, Edizioni Junior 2014.
Louv R., L’ultimo bambino nei boschi. Come riavvicinare i nostri figli alla natura, Rizzoli 2005.
Ester Listì